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"Quando Giulio Einaudi mi propose di tradurre il 'Lenin' di Vladimir Majakovskij, restai sulle prime perplesso. Perché il 'Lenin', composto dall'aprile all'ottobre del 1924, è tra i poemi di Majakovskij il meno robusto e il più povero di invenzioni e metafore, e quello in cui più si svela il suo assillo di schiacciare la gola della propria canzone. Mi perseguitava la dura frase con la quale Pasternàk, nello 'Schizzo autobiografico', condanna la poesia politica majakovskiana: 'Non mi dicono nulla queste ricette goffamente rimate, questa ricercata vuotaggine, questi luoghi comuni e le trite verità formulate in maniera così artificiosa, confusa e piatta'. Del resto i torrenti di apologetica, che grondano da un capo all'altro del poema, mi avevano sempre respinto, anche se l'idolo in esso osannato non ha perduto grandezza nella rovinosa distanza del tempo e può ancora apparire, come afferma Leiris, 'l'apôtre ou le saint de ce XX siècle travaillé de courants si divers'." (Dalla Postfazione di Angelo Maria Ripellino)